Intervista a Snap.

Bboy Snap non ha bisogno di presentazioni per chi vive il breaking. Con una carriera ventennale alle spalle, è un esempio di dedizione, talento e passione per la cultura hip hop. La sua avventura, iniziata quasi per caso, lo ha portato a sfidare il proprio destino e a diventare una delle figure più influenti del breaking italiano. A pochi giorni dall'evento internazionale 'Breaking for Gaza', in programma il 4 gennaio, dove sarà uno dei 4 team leader, unico italiano, gli abbiamo rivolto alcune domande per ripercorrere i momenti chiave del suo percorso, approfondire il valore dell'istruzione e delle connessioni umane, e scoprire la sua visione sul futuro del breaking. Ecco cosa ci ha raccontato.

Buongiorno Snap, grazier per il tempo, per l'ambiente non hai bisogno di presentazioni, mentre per chi si avvicina a questo mondo puoi dirci come hai iniziato?

 Ho iniziato a ballare tra il 2004 e il 2005, durante la mia adolescenza. Era un periodo in cui, uscendo di casa, iniziavo a recepire informazioni sulla cultura hip hop. Mi capitava, per esempio, di andare a qualche jam con degli amici: chi faceva graffiti, chi ballava, era il tempo dei Bomfunk MC's, un gruppo rap che durante le loro esibizioni aveva ballerini che li accompagnavano. Tutto questo fermento culturale, unito al mio interesse per la musica, mi ha portato ad avvicinarmi al breaking.

La mia storia con il ballo è un po’ particolare, perché non avevo nessuno vicino a me che potesse insegnarmi. Cercavo di fare da solo, provando e buttandomi. Ricordo un giorno, tornando da scuola, di aver visto dei ragazzi che ballavano. Non sapevo ancora ballare, ma la prima cosa che mi venne in mente di fare fu sfidarli. Loro accettarono e ci demmo appuntamento per il giorno dopo. Ovviamente venni umiliato, ma grazie a quell’episodio entrai in contatto con William "Wizzy", che ora fa parte del mio gruppo, i Last Alive

All’epoca, rubavo passi dai primi video che si potevano trovare online – per chi aveva internet – e da quello che riuscivo a vedere per strada. Nel 2005 mi arrivò un DVD del Battle of the Year 2004: ancora oggi lo conosco a memoria. Ricordo che cercavo di imitare tutto quello che vedevo, ballando nel salotto di casa.

Unendo tutto questo – i video, gli incontri, e le prove continue – iniziai a imparare davvero qualcosa. Poco dopo entrai in contatto con la scena leccese dell'epoca, e da lì in poi è nata una passione che non mi ha più abbandonato.

Come nasce il tuo nome da bboy?

Il mio nome da B-Boy, Snap, nasce dalla passione che avevo anche per i graffiti, un elemento fondamentale della cultura hip hop. La scelta del nome ha due motivazioni principali. La prima è la praticità: cercavo un nome corto, perfetto per una tag, qualcosa di rapido da scrivere sul muro. La seconda motivazione è legata al significato sonoro e simbolico del nome stesso.

"Snap" richiama l'onomatopea dello schiocco delle dita, un gesto che spesso accompagna il ritmo della musica e rappresenta il concetto di andare a tempo. Questa idea del "tempo" è qualcosa in cui mi sono sempre sentito particolarmente ferrato. Inoltre, "snap" può essere associato a qualcosa di rapido, deciso e d'impatto, una qualità che si riflette nel mio stile di breaking, molto energico e potente.

Hai raggiunto grandissimi traguardi, puoi dirci quali consideri più importanti e se c'è stato un episodio che per te ha rappresentato il punto di svolta?

In vent'anni di carriera ci sono stati moltissimi momenti importanti e traguardi, ma di pancia me ne vengono in mente tre in particolare.

Il primo risale al 2009, quando con la mia crew, Last Alive, partecipammo per la prima volta ai Hip Pop Connection a Pesaro. In quell’occasione affrontammo la crew Havikoro in una sfida. Perdemmo, ma quella sconfitta ci fece tornare a casa più motivati che mai. Fu uno stimolo per migliorare e ci spinse a lavorare ancora di più per raggiungere il livello successivo.

Il secondo momento significativo è legato al Battle of the Year nel 2014. In quell’anno riuscimmo a vincere la qualifica italiana, conquistando così l’accesso alla competizione internazionale. Calcare quel palco per me fu incredibile, perché il mio primo Battle of the Year fu nel 2004 e rappresentava uno dei miei primi contatti con il breaking professionale. Dieci anni dopo, trovarmi su quello stesso palco con la mia crew, che nel frattempo era diventata una vera e propria famiglia, è stato un traguardo di immensa importanza.

Il terzo momento che ricordo con grande emozione è più recente, del 2019. In quell’anno, superando le selezioni con un punteggio molto alto le selezioni dell'Outbreak mi qualificai per la fase successiva. Al primo turno dei top 32, mi trovai contro Sunni, un avversario rinomato e molto rispettato nella scena. Riuscii a batterlo, e quella vittoria mi fece capire che dovevo credere di più in me stesso. Mi resi conto che, con il giusto impegno e la mentalità giusta, tutti possono essere battibili.

Per arrivare ai tuoi livelli, ci sono sicuramente tanti sacrifici da affrontare, come gli allenamenti intensi o la rinuncia al tempo libero. Tuttavia, i veri sacrifici spesso riguardano scelte più profonde, come la famiglia, il lavoro o altre responsabilità personali. Come hai trovato l’equilibrio tra il breaking e questi aspetti della tua vita? E cosa ti hanno insegnato questi sacrifici?

Sicuramente, i sacrifici sono stati tanti, e continuano a esserlo tutt’ora. Sarebbe ipocrita dire che non ho mai messo il breaking al primo posto. Nonostante abbia cercato di portare avanti il mio percorso di studi e le attività lavorative, il breaking è sempre stato la mia priorità. Se non fosse stato così, probabilmente non sarei riuscito a raggiungere un certo livello né a vivere le soddisfazioni che ho avuto.

Cosa mi ha insegnato tutto questo? Mi ha insegnato che, se una persona crede davvero in quello che fa e ci mette tutto se stesso, guidata da una passione profonda, prima o poi i sacrifici verranno ripagati. Non importa quanto tempo ci voglia: giorni, mesi, o persino anni. Se si lavora duramente, con determinazione e purezza d’intenti, sono convinto che si riuscirà a raggiungere ciò che si desidera.

Sappiamo che sei laureato, salvo rari casi, una sana ossessione è fondamentale per eccellere in tante discipline, compreso il breaking, ma alla fine è l’uomo quello che poi scende dal floor. Quanto ritieni importante, oltre alla danza, investire nella propria istruzione e formazione personale, per dare valore al proprio percorso sia dentro che fuori dal breaking? 

Sì, ho una laurea in Scienze Motorie, conseguita non senza sacrifici, saltando esami per partecipare a contest, lezioni e allenamenti. Ritengo fondamentale avere un percorso alternativo. Fin da piccolo ho sempre visto il breaking come una vera e propria passione, qualcosa di puro e autentico, più che come un lavoro o un’opportunità economica, soprattutto nei primi anni, quando era ancora difficile immaginarlo come una professione remunerativa. Di conseguenza, sono cresciuto con l’idea che avere un’alternativa fosse naturale. Man mano che si avanza nella vita e nel percorso accademico, ciò che viviamo si riflette anche nel breaking, portandoci a una consapevolezza diversa. Tuttavia, continuo a credere fermamente che il breaking debba essere prima di tutto passione: amore incondizionato, al di là della competitività, del lavoro o del denaro. Se in futuro dovesse diventare un’opportunità lavorativa, ben venga, ma non deve essere questa la motivazione principale che ci spinge a proseguire.

Oggi il mondo del breaking è cambiato profondamente rispetto ai tuoi inizi. Per un giovane che vuole investire il proprio tempo in questa disciplina, quanto è importante far parte di una crew e che ruolo potrebbe giocare nel suo percorso?  

Nonostante oggi siamo in una nuova generazione e siano passati tanti anni, far parte di un gruppo rimane per me qualcosa di fondamentale. Non dobbiamo mai dimenticare che il breaking, come movimento e come colonna portante della cultura hip hop, si basa sull’aspetto comunitario. La competizione, per quanto importante, dovrebbe essere secondaria rispetto al senso di appartenenza e alla condivisione.

Parlando in termini più pratici, avere un gruppo significa avere persone su cui contare non solo durante gli allenamenti, ma anche nella vita di tutti i giorni. Con i membri della crew si condividono pensieri, opinioni e anche problemi personali. Si crea un legame che va oltre la semplice danza: si diventa una vera e propria famiglia.

Questa è, a mio parere, la cosa più bella. Perché quando arriverà il momento in cui smetteremo di ballare, se il legame costruito era autentico e forte, quella famiglia continuerà a esistere. Non sarà più il breaking a unirci, ma il rispetto, l’affetto e le esperienze condivise. È questo che dà un senso profondo a tutto: sapere che, al di là delle vittorie o delle sconfitte, hai costruito relazioni che durerà.

Com'è cambiato ambiente da quando hai iniziato? Cosa è andato a perdersi e invece quali aspetti sono migliorati? 

Onestamente, posso dire che l’ambiente del breaking è cambiato tantissimo. Avendo vissuto la scena per vent’anni, ho assistito a un vero cambio generazionale. Si è passati dagli eventi organizzati per strada, con un semplice cartone sull’asfalto, ai palchi internazionali, davanti a migliaia di persone.

Da un lato, ci sono molti aspetti positivi in questa evoluzione. Oggi, chi riesce a raggiungere un certo livello ha la possibilità di viaggiare, fare esperienze, e, in alcuni casi, trasformare la propria passione in un lavoro. Questo è qualcosa di impensabile fino a qualche anno fa. Le opportunità che si aprono sono tante, e questo dimostra quanto il breaking si sia evoluto e sia cresciuto.

Dall’altro lato, però, sento che si è perso qualcosa. Quel legame profondo con la cultura hip hop si è affievolito. È come se le diverse discipline – breaking, graffiti, DJing e rap – si stessero separando sempre di più, e manca, nella maggior parte della scena attuale, l’interesse comune nel mantenere viva l’unione tra di esse.

Anche il fatto che il breaking sia passato lentamente dalla strada alle palestre ha contribuito a snaturarlo in parte. Questo cambiamento ha reso più difficile la creazione di nuovi gruppi emergenti e nuovi legami autentici. Oggi, tutto è molto più orientato alla competizione, al risultato, piuttosto che a vivere i valori e le bellezze che questa cultura offre.

Penso che sia importante non perdere di vista l’essenza di ciò che il breaking rappresenta: non solo una disciplina, ma una forma d’arte e un’espressione di una cultura collettiva. La competizione può essere uno strumento di crescita, ma non dovrebbe mai diventare l’unico obiettivo, perché rischiamo di perdere ciò che rende il breaking davvero unico.

Spesso si dice che i giovani di oggi si somigliano molto, con un focus maggiore sull'aspetto atletico rispetto a quello artistico. Non credi che anni fa fosse più semplice sviluppare uno stile personale, mentre oggi, con l’apprendimento standardizzato nelle scuole di danza, i ragazzi rischiano di sacrificare creatività e identità seguendo gli stessi modelli? Cosa ne pensi?

Penso che, oggi, creare uno stile personale sia diventato molto più difficile rispetto al passato. Questo non dipende solo dall’aumento del numero di persone che ballano, ma anche da fattori più profondi legati all’influenza dei social media e all’enorme quantità di eventi che ci bombardano continuamente. Inconsciamente, siamo esposti a dei "filoni" di breaking che seguono le mode del momento, decennio dopo decennio.

Questo crea un fenomeno per cui, nella corsa al successo e al desiderio di vincere competizioni, i più giovani tendono a ispirarsi ai b-boy di punta del momento. Guardando e riguardando i loro video, i loro movimenti, il cervello, anche inconsciamente, finisce per assimilarli quasi automaticamente. Questo processo rende sempre più difficile riuscire a esprimersi in modo davvero autentico e originale.

La differenza con la mia generazione è che, avendo poca ispirazione attorno, eravamo in qualche modo guidati dall’ignoranza. Parlo di un’ignoranza positiva, quella che ti spinge a inventare, a sperimentare e a trovare la tua strada perché non hai punti di riferimento ben definiti.

Noi della crew Last Alive ne siamo un esempio. Ognuno di noi è riuscito a sviluppare un’identità diversa proprio grazie – o forse a causa – del fatto di non aver mai avuto un maestro. Non avendo una guida che ci insegnasse i passi o uno stile predefinito, siamo stati costretti a creare, a esplorare e a scoprire il breaking in maniera personale.

Questo, oggi, è sempre più raro. Non significa che non ci siano talenti originali, ma il percorso per trovarsi e distinguersi è molto più complesso, proprio perché siamo costantemente esposti a un flusso di informazioni e di riferimenti che rischiano di uniformare. La sfida, ora, è riuscire a sfruttare questa enorme quantità di stimoli senza farsi schiacciare da essa, mantenendo viva la capacità di essere se stessi.

Pensi possa esserci il rischio che concentrarsi troppo sulla preparazione dei round e sulla perfezione tecnica possa portare, in futuro, a un breaking più orientato verso l'aspetto atletico che verso quello artistico, dove i ballerini saranno atleti e non più artisti?

Onestamente, sì, più volte mi sono interrogato sulla possibilità che questo rischio sia reale. Certo, credo che la responsabilità sia nelle mani di noi, come comunità, per riuscire a passare la torcia nella maniera più positiva possibile alle generazioni che verranno.

Il breaking di oggi, inevitabilmente, non può essere più quello di vent’anni fa, così come la disco o il reggae non sono più quelli dei loro anni di esplosione. È normale che le cose evolvano, e in parte è anche giusto così. La competizione sta crescendo sempre di più, con l’ingresso alle Olimpiadi e la visibilità globale, ma nutro la speranza che, guidati dai giusti valori e dalle esperienze positive anche fuori dal contesto competitivo, l’aspetto sociale del breaking possa continuare a sopravvivere.

Purtroppo, solo il futuro potrà dirci se questo equilibrio sarà mantenuto. Sta a noi, però, fare del nostro meglio affinché l’evoluzione non significhi perdita, ma trasformazione positiva. 

Sappiamo quanto per te  abbracciare l’hip hop nella sua totalità sia fondamentale. Se dovessi spiegare a un ragazzo perché questo aspetto è così importante, sia per la crescita personale che per sviluppare uno stile unico, cosa gli diresti?  

Direi che avere una conoscenza solida del passato e comprendere come siamo arrivati a fare tutto questo è fondamentale. Questa consapevolezza non solo alimenta il rispetto per ciò che è stato, ma accende anche la curiosità e l’interesse nel superare i limiti e i canoni che vediamo quotidianamente.

Prendiamo, ad esempio, i graffiti: comprendere il loro linguaggio ci può insegnare tantissimo su come uno stile possa essere spigoloso o morbido, sull’importanza dei colori, delle forme, dell’impronta personale che emerge in ogni tag. È proprio questa unicità che rende qualcosa autentico e significativo, un concetto che possiamo applicare anche al breaking.

Lo stesso vale per il DJing, un elemento cardine della cultura hip hop. Non c’è bisogno di sottolineare quanto sia strettamente legato a ciò che facciamo: senza la musica, il breaking non esisterebbe. Approfondire lo studio della musica, del mixaggio, della costruzione di un set, aiuta non solo a raffinare l’orecchio, ma anche a migliorare il modo in cui il nostro corpo reagisce e si esprime.

E per quanto riguarda l’MCing? La capacità di fare rap su diversi flow ha un parallelismo immediato con il top rock. Ballare seguendo le liriche, cogliere i mezzi tempi, i tempi principali o persino gli accenti, ci spinge a cambiare il nostro stile e a interpretare la musica in modo più profondo e creativo.

Alla fine, tutto si riconduce alla conoscenza. Conoscere e comprendere a fondo la storia e le radici di questa cultura non può che renderci maestri di ciò che facciamo. È proprio attraverso questo legame con gli altri elementi dell’hip hop che possiamo evolverci non solo come b-boy, ma come artisti completi.

Col tempo hai creato uno stile inconfondibile e un'attitudine ai battle unica. Pensi che l'attitudine, così come la presenza scenica, sia un aspetto che possa apprendere e svilupparsi nel tempo oppure è cosa innata?

Onestamente, credo che tutto possa essere allenato e sviluppato. Personalmente, il mio stile non l’ho mai ricercato in modo consapevole. È stato qualcosa che è arrivato in modo naturale, grezzo, e che poi ho imparato a controllare e affinare, trasformandolo in un vantaggio.

Penso che ognuno di noi abbia un elemento distintivo, qualcosa che può diventare il proprio punto di forza. La vera sfida sta nel trovarlo e riuscire a plasmarlo in modo da esprimerlo al meglio e renderlo riconoscibile.

Hai girato molto e ti sei approcciato con tante realtà diverse dalla nostra. Come valuti il livello del breaking italiano?

Il livello del breaking italiano si sta alzando sempre di più. La nuova generazione sta emergendo come un esempio concreto di come si stia imponendo sulla scena internazionale in eventi di alto livello, Jet Leg è l'esempio lampante di questa crescita. Sono convinto che questa sia solo la prima fase e che la generazione più giovane darà ancor più filo da torcere, portando il breaking italiano a livelli sempre più elevati nella scena globale.

Veniamo ai giorni nostri, a un evento cui noi vogliamo dare molto risalto per il messaggio che porta con se, parliamo di breaking for Gaza. Puoi raccontarci di questa tua partecipazione e cosa significa per te?

Per me, rappresentare l’Italia a Breaking for Gaza è motivo di grande orgoglio. Credo che l’hip hop, in generale, debba restare fuori dalla politica, ma ciò non significa rimanere indifferenti di fronte alle ingiustizie che ci circondano. Se ciò che facciamo può veicolare un messaggio positivo e contribuisce a sensibilizzare su tematiche importanti, allora credo che il nostro dovere sia prenderne parte attivamente.

Abbiamo visto tutti i video della scuola distrutta a Gaza, ma nonotante tutto di come i ragazzi continuino a trasmettere un messaggio di speranza, nonostante le difficoltà e la mancanza di positività intorno. Sento un forte dovere morale di supportare iniziative di questo tipo e fare la mia parte nel trasmettere un messaggio di solidarietà e resistenza.

Per concludere, qual è l'emozione più bella che hai vissuto fino ad oggi?

Una delle emozioni più forti è stata senza dubbio l’opportunità di essere il primo italiano a entrare a far parte dei Mighty Zulu Kingz , il primo gruppo creato nel 1973 dai pionieri dell’hip hop. Questo è qualcosa che non può che riempirmi di orgoglio e rappresenta una fonte di continua ispirazione per me. Grazie a questa esperienza, ho avuto l’opportunità di conoscere e avvicinarmi a leggende fondamentali del movimento, non solo nel breaking ma in tutto l’universo hip hop. Questo mi ha permesso di vivere emozioni uniche e impagabili. 

E quale vorresti vivere ?
Un’emozione che ancora non ho vissuto, ma che spero di realizzare, che è più un sassolino nella scarpa che vorrei togliermi è quello di vincere il BC One Italia. Nonostante le numerose partecipazioni, non sono ancora riuscito a portare a casa il trofeo e credo sia l’unico tassello mancante nella mia collezione di traguardi nazionali. Lo scorso anno ci sono andato vicino, sfiorando la vittoria, e spero di riuscire a vivere questa emozione prima - tra un po' di anni - di appendere le scarpe al chiodo tra qualche anno.

Grazie mille Snap!