Intervista a EsomRock.
E' una delle figure di riferimento per il breaking milanese ma non solo, ha fondato una delle crew più iconiche per panorama nazionale ma soprattutto è riuscito a fare del breaking la sua professione. La sua è una storia da conoscere, come dimostrazione a tutti coloro che si stanno avvicinando a questa disciplina che il breaking può dare opportunità lavorative e di carriera. Oggi abbiamo con noi EsomRock!
Prima di tutto, puoi raccontarci qualcosa di te, dei tuoi inizi nel mondo del breaking.
Ciao, io sono Mosè, in arte Esomrock, vengo da Firenze, più precisamente dalla zona del Val d'Arno. Tutto è iniziato proprio lì, nel lontano 1996, quando ascoltavo molto la radio, cosa che oggi faccio meno. All'epoca cominciavano a passare i primi pezzi rap americani, come quelli di Coolio, Dr. Dre, Nas, e ogni tanto si sentiva anche qualcosa dei Wu-Tang Clan. Anche l'R&B aveva il suo spazio, con artisti come Brandy, Aaliyah, Mariah Carey. Mi appassionai subito a questo genere musicale e cercavo di capire da dove provenisse, perché all’epoca le informazioni erano poche e non era facile scoprirne di più. In qualche spot televisivo si vedevano personaggi che facevano mosse come girare sulla testa o i windmill, e rimasi molto affascinato.
Però, per un po’ di tempo, ascoltavo solo la musica senza praticare nulla o conoscere la cultura hip hop. Nel 1998, credo agli inizi dell’anno, andai in una discoteca domenicale che si chiamava Taotec, e lì vidi per la prima volta dei ragazzi che ballavano breakdance, o meglio, il breaking, anche se tutti la chiamavano "rap". Erano ragazzi di Montevarchi e dintorni, e tra loro c’era un mio amico, con cui mi confrontavo spesso perché giocavamo a calcio in squadre diverse. Ci sfidavamo ogni tanto, oltre a frequentare la stessa scuola.
Dovetti subito chiedergli: "Vincenzo, cos'è questa cosa? Spiegami, fammi vedere!". Lui venne a casa mia e mi mostrò i primi passi, un po' casuali e senza un vero senso. Mi disse che c’erano altri ragazzi, più giovani, nella zona di Montevarchi che facevano un po' di tutto: c'era chi cantava, chi suonava, chi ballava, chi provava a fare un po' di tutto. Dopo un po’, mi unii a loro e, con il passare dei mesi, formarono la mia crew. Loro fondarono gli MHS, e io mi aggregai. MHS stava per Metro Hell Squad, ed eravamo un gruppo di Montevarchi e dei paesi vicini. Scoprii poi che a Firenze, in piazza della Repubblica, o al Binario 16 a Santa Maria Novella, altri si riunivano per ballare breaking, rappare e tutto il resto e non mi fermai più.
E come nasce il tuo nome da bboy?
Il mio nome nasce dal fatto che molti ragazzi con cui praticavo mi dicevano: "Mosè, ci vuole un nome d'arte, ci vuole una tag!" E io rispondevo: "Ma cos'è questa tag? E chi dovrebbe darmela?" Mi dicevano che ero io a doverla decidere, o che poteva nascere da qualcuno che mi associava a qualcosa, magari per come ballavo, per come mi comportavo o semplicemente per il cognome. Così mi sono detto: "Se devo darmi un nome, perché non usare il mio al contrario?" e aggiungerci all’inizio One legato a Next One dopo averlo visto in un VHS ballare. Da lì è nato Esom One. Poi, quando mi sono trasferito a Milano, è cambiato in DarkSteel, ho sentito il bisogno di cambiare e di trovare qualcosa di più rappresentativo, più forte. Questo nome viene da un cofanetto di Magic al quale giocava Mad Lucas al tempo. Infatti è stato proprio lui a farmelo vedere e a suggerirmelo tra le righe. Successivamente il mio nome si è trasformato in EsomRock, proprio perchè tutti continuavano a chiamarmi esclusivamente Mosè visto che è già un nome particolare. Così ho voluto riadattarlo al vecchio nomoe d'arte che avevo "Esom One, ma ci ho aggiunto Rock, togliendo one perchè al tempo, come oggi, mi appassionava tantissimo la musica rock. Essendo appassionato di rock e blues mi sembrava appropriato avvicinarmi a un nome che più si avvicinava a questo genere. Rock è diventato parte del mio nome perché rappresenta una delle mie passioni principali, anche se ascolto tanto rap e colleziono dischi di vario genere.
Nell'ambito del breaking, il tuo nome è associato ai Bandits. Cosa ti ha ispirato a fondare la crew e qual era la vostra visione iniziale?
Tutto è cominciato nel 2000, quando ho conosciuto Luca, alias Mad Lucas, durante un bellissimo evento a Bologna, il BBoy event. Da lì è nata un'intesa immediata e, l'anno successivo, abbiamo deciso di fondare i Bandits. All'inizio eravamo già un bel gruppo di persone che, sebbene non ancora famose a livello nazionale, si facevano notare nella scena italiana. Tra di noi c'era anche un b-boy francese, Francò, che era un nostro caro amico, un pazzo scatenato molto divertente. L'ideale sin dall'inizio era rappresentare noi stessi, la nostra amicizia e la nostra forza attraverso il breaking. Volevamo farci un nome prima a livello nazionale e poi puntare a quello internazionale, volevamo spaccare! Uno degli obiettivi principali poi era vivere facendo ciò che amavamo: ballare breaking.
Quali sono state le principali sfide che avete affrontato nei primi anni di attività? Come le avete superate?
La prima grande difficoltà era che eravamo tutti giovani e inesperti, non sapevamo bene come fare certe cose, quindi è stato tutto un processo di scoperta, passo dopo passo, spesso inventandoci nuove soluzioni. A quel tempo non c'erano scuole di danza come oggi, non c'erano persone come me o altri che ti spiegavano come fare. Inoltre, un'altra sfida che però non ci ha mai spaventato era la distanza geografica. Io vivevo a Firenze, Francò a Parigi, e altri membri erano sparsi tra Milano, Genova e Bergamo. Non era facile incontrarsi. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto nel 2004 a trasferirmi a Milano, la capitale del lavoro e del business, per poter far crescere la crew. Qui ho iniziato ad aprire corsi di breaking in diverse scuole di danza, qualcosa che era impensabile a Firenze o in altre parti d'Italia all'epoca.
Come è cambiata la crew nel corso degli anni? Ci sono stati momenti particolari che hanno segnato una svolta nel vostro percorso?
La crew è cambiata moltissimo negli anni, perché sono cambiate le persone al suo interno, me compreso. Molti membri sono passati e andati via, ma ognuno ha lasciato un contributo che ha permesso alla crew di evolversi. Inizialmente, il nostro obiettivo principale era spaccare nei battle e farci un nome a livello nazionale e internazionale, e ci siamo riusciti. Poi ci siamo concentrati sull'aspetto lavorativo, creando scuole di danza, facendo workshop in giro per l'Italia dando opportunità di lavoro in teatro o nel mondo delle spettacolo, qualcuno, come Froz, ha aperto la propria scuola.
Sicuramente i momenti più significativi che ci hanno segnato sono stati quei momenti in cui siamo andati in perdita, in down. Cioè cosa significa quando alcuni membri hanno deciso di lasciare il gruppo o quando siamo stati noi a doverli allontanare. Quando ci sono state decisioni difficili da affrontare, ma necessarie per il bene della crew. Abbiamo sempre creduto in noi stessi e non ci siamo mai arresi. Siamo sempre risorti, come la fenice.
Puoi raccontarci un aneddoto memorabile o un momento speciale vissuto con i Bandits?
È difficile scegliere un momento in particolare, ce ne sono stati tanti, sia di vittorie che di sconfitte. Un aneddoto memorabile è sicuramente quando, nel 2006, ci hanno chiamato per girare il videoclip di Alexia, "Da Grande". Era un'esperienza nuova e incredibile per tutti noi. Un altro momento importante è stato quando siamo diventati collaboratori di Tim Tribù, un'iniziativa di TIM rivolta ai giovani. Grazie a quel progetto, abbiamo ricevuto dei fondi che ci hanno permesso di fare molte cose, come viaggiare e realizzare progetti. Un terzo momento epico è stato il matrimonio di Mad Lucas, una festa incredibile dove ci siamo scatenati a ballare fino a tarda notte, insieme ai Da Move, un’altra crew a cui appartengo.
Il tuo contributo per la scena è riconosciuto da molti, hai creato momenti di condivisione e crescita collettiva. Sei soddisfatto di ciò che hai fatto o c’è qualcosa che avresti voluto fare di più?
Sono contento di sapere che è la scena stessa a riconoscere il mio contributo, e non sono io a dirmelo da solo. Penso di aver fatto un buon lavoro, anche se non lo definirei proprio un lavoro. Il mio obiettivo è sempre stato quello di creare aggregazione e unire le persone, perché spesso mi rendevo conto che non c'erano veri motivi per non passare il tempo insieme. Mi allenavo non solo con i Bandits, ma anche con altre persone della scena milanese, come Sponge, Ata, Flavio, e i ragazzi dei ReMiLine, come Geme. Per me, creare momenti di incontro e condivisione è stato fondamentale. Sono anche arrivato a pensare: "Beh, sarebbe più bello se, invece di trovarsi a spot qua e là come succedeva all'inizio, quando sono arrivato a Milano, ci fosse un punto di riferimento". All'inizio c'era, ad esempio, in zona Corvetto, il Polo Ferrara, uno spazio gestito da Twice dei Natural Force, uno dei primi Natural Force, che dava la possibilità a tutti di allenarsi. Così si è nata Moscova, che è una zona all'aperto, dove ho cercato di dare la stessa opportunità, permettendo a tutti, non solo ai milanesi, ma anche a chi passa da Milano, di avere un luogo dove allenarsi nel modo più giusto. Lavorare per la community fa crescere tutti. Dando opportunità ai ragazzi giovani di confrontarsi oltre le scuole danza, che magari frequentano, e ancora non sanno quando sia importante avere una crew. Un luogo che riunisce tutte le crew milanesi.
Come percepisci la scena della breakdance locale oggi rispetto a quando hai iniziato?
Oggi la scena è molto diversa rispetto a quando ho iniziato. I giovani hanno accesso a tantissime risorse e opportunità, ma spesso manca la passione. Molti si avvicinano al breaking, ma poi si perdono per strada perché non hanno ben chiaro cosa significhi sacrificarsi per una passione. Ai nostri tempi, non avendo niente, dovevamo inventarci tutto, e questo ci spingeva a fare sempre di più.
In passato, ci sono stati momenti di tensione o scontri tra diverse crew. Puoi spiegarci quali erano le ragioni principali dietro questi conflitti e se pensi che la situazione sia cambiata oggi?
Le faide tra crew, soprattutto a Milano ma anche nel resto d'Italia, erano spesso dovute al fatto che eravamo giovani e inesperti. Tutti volevano essere i migliori, i "boss" del proprio quartiere, e vedere gli altri come avversari. Tu facevi lo cose giuste, gli altri solo sbagliate. A volte, chi tornava da New York pensava di sapere tutto sul breaking e sull'hip hop, e cercava di imporre la propria visione agli altri. Quando non capiva che ogni Stato ha una realtà a se ed è concettualmente sbagliato pensare di trasportare la visione americana qui da noi. Sarebbe ridicolo pensare che un italiano si metta a comportarsi come un americano! Oggi le cose sono molto cambiate, la scena si è voluta: c'è più consapevolezza e voglia di collaborare all'interno della community, anche se qualche tensione esiste ancora.
Quali sono, secondo te, i punti di forza e le sfide principali che la scena deve affrontare attualmente?
Oggi il problema principale è legato alla società in cui viviamo: raccogliamo informazioni facilmente su tutto e facciamo tutto molto più velocemente, ma questo porta soprattutto i giovani a stancarsi facilmente. Hanno tutto a portata di mano, ma manca la perseveranza. C'è meno voglia di impegnarsi rispetto a quando ho iniziato io, e questo si riflette anche nella difficoltà di formare nuove crew. Inoltre, l'individualismo è più diffuso, mentre ai miei tempi ci si sforzava di fare tutto insieme.
Pensi che oggi ci siano più opportunità professionali per chi vuole fare del breaking una carriera rispetto a quando hai iniziato?
Assolutamente sì. Oggi è molto più facile vivere di breaking rispetto a quando ho iniziato. Ci sono opportunità nel mondo dello spettacolo, della televisione, delle pubblicità, nell'insegnamento o anche nell’organizzazione di eventi. Tuttavia, in Italia è ancora difficile far capire alle persone, specialmente ai genitori, che il breaking può essere una vera e propria professione, non solo una passione.
Quali sono, secondo te, le qualità e le competenze fondamentali che un breaker dovrebbe sviluppare se vuole trasformare la sua passione in una professione?
Mi sento molto vicino a questa domanda perchè vissuta personalmente. Dopo qualche anno che mi ero trasferito a Milano, ho capito che per trasformare il breaking in una professione era necessario avere disciplina, passione e soprattutto perseveranza. Bisogna anche essere capaci di adattarsi e imparare costantemente, non solo nel ballo, ma anche nella gestione di una carriera professionale, come insegnare, organizzare eventi e collaborare con altri artisti. Bisogna scendere a compromessi. La sfida più grossa è capire che facendone una professione hai un interlocutore con cui interfacciarti, e molto spesso dall’altra parte trovi gente ignorante della materia, e quindi devi trasmettere chi sei, cosa fai e come ti piace farlo. Altra cosa fondamentale è l'aggiornamento, devi essere sempre aggiornato nell’ambito lavorativo che hai scelto.
I ragazzi di oggi scelgono il breaking come alternativa ad altri sport e poi iniziano la formazione verso il mondo hip hop e la sua cultura. Pensi che in futuro ci sarà una divisione tra il breaking inteso come sport e come componente artistica, parte della cultura hip hop?
Beh, io penso che questa divisione ci sia già stata in passato e continuerà a esistere. È un po' come parlare della parte underground e di quella commerciale. Per me è la stessa identica dinamica. Un esempio che ho fatto durante un talk a Milano lo rende molto chiaro: l'underground esiste perché c'è il commerciale, e viceversa. L'una non esisterebbe senza l'altra. Molte persone si affacciano al mondo underground e poi finiscono magari nella parte esclusivamente commerciale. Altri, invece, si approcciano al mondo commerciale e, alla fine, scoprono e si avvicinano al panorama più underground, esplorando così tutta la componente culturale. Possiamo quindi vederlo come un continuo botta e risposta tra queste due realtà.
Che messaggio vorresti lasciare ai breaker emergenti e alla comunità in generale per ispirarli e motivarli a continuare a crescere?
Penso che questa sia la domanda più semplice. Il consiglio che mi sento di dare ai giovani è uno solo: continuate a ricercare. La parola chiave deve essere "ricerca". Ricercare se stessi, il proprio breaking, la musica e nuovi stimoli in questo panorama. La ricerca è ciò che vi porterà a evolvervi e a crescere, quindi è fondamentale non smettere mai di esplorare.
Per concludere, qual è l'emozione più bella che hai vissuto finora e quale esperienza ti piacerebbe ancora vivere?
L'emozione più bella, indubbiamente, è stata il Battle Of The Year del 2018. È stato un momento incredibile, frutto di quasi un anno di lavoro intenso. Ci trovavamo due o tre volte alla settimana per provare tutti insieme, creare coreografie, ripetere, riprovare, sclerare. Passare tutto quel tempo con la crew, vincere il BOTY italiano, andare in Francia per l’International e arrivare decimi al mondo è stato un traguardo bellissimo. Un livello di competizione altissimo e un'esperienza indimenticabile. Non posso che fare i complimenti a tutti i compagni di quell'anno straordinario.
Mentre tra le esperienze che vorrei rivivere sicuramente c’è quella del BOTY appena menzionata. Mi piacerebbe che, in questi anni, ci fosse ancora il BOTY, per poter partecipare di nuovo e magari riuscire a conquistare un posto tra i primi tre. Sarebbe la cosa più emozionante e più bella, senza dubbio. È qualcosa di molto difficile, anche perché, come dicevo, non si organizza più, e anche noi stiamo cominciando ad avere una certa età. Penso che questa sarebbe l’emozione più grande che potrei provare e rivivere, anche se in certi aspetti sarebbe diverso, magari con persone nuove, perché non siamo più gli stessi del 2018, o almeno non tutti, solo pochi.